Quel Paese in caduta libera che sembra scritto da Tom Waits

Quel Paese in caduta libera che sembra scritto da Tom Waits

Ce l’abbiamo presente tutti un album di Tom Waits, no? Disperazione, struggimenti amorosi, rapporti paradossali con la realtà, epopea dei perdenti. Bene. Così è l’Italia al tempo del Covid-19. O meglio, così è l’Italia che come un maestro rinascimentale è stato capace di affrescare Christophe Palomar, che a dispetto del nome dimostra di conoscere questo Paese meglio del primatista più sfegatato. Se Waits racconta la “wrong side” dell’immaginario a stelle e strisce, Palomar fa la sua versione di quella Tricolore, opportunamente aggiornata all’era pandemica in “La crisi colpisce anche di sabato” (Ponte alle Grazie, pag. 421, € 18). Si tratta di un aggiornamento importante. Di quelli che – chi si intende di informatica sa di cosa parlo – richiedono l’intervento di un tecnico. Perché evidentemente il sabato non è più quello della “febbre” di travoltiana memoria, ma nemmeno l’abbacinante incedere della donzelletta cantata dal poeta recanatese.

Sono tre i contesti narrati da Palomar in questo romanzo corale. Il primo è romano “de Roma”, anzi del Testaccio, il quartiere costruito sopra i resti di una discarica di cocci. Qui troviamo Adriano, un pensionato, separato, che come tanti altri boomers che affollano il presente si è spinto già molto in là nel processo inconscio del “negare alle altre generazioni il diritto ad essere giovani”. Perso in “un mondo moribondo che non finisce mai di morire”. Dal suo balcone, osserva i ragazzi, ognuno perso nel proprio cellulare, e spietato li giudica. Infine, qualcosa gli dice che “presto non rimarrà nulla di questa gioventù inutile”.

Seconda storia, quella di Gioia, manager milanese che incorpora tutti gli stereotipi della yuppies post-2008, tra lo smart working imposto dal virus e l’ancora offerta dal life coaching. Donna in un mondo che le donne tende a metterle da parte, come se uno strano ed invisibile ammortizzatore sociale di tipo morale lavorasse incessantemente per favorire la metà maschile del mondo (fatta eccezione per Ugo, fratello di Gioia, bibliotecario, che ha fatto una regola di vita dell’adagio aristotelico: “La cultura è un ornamento nella buona sorte ma un rifugio nell’avversa”).

Il terzo capitolo del grande affresco di Mastro Palomar ci porta dritti dritti in territori vagamente beckettiani. Tuttavia non siamo nelle buche sabbiose di “Giorni felici” e i ragazzi senza nome di una provincia a cui – a mio avviso – viene dato un nome solo per non farci girare troppo la testa (Ferrara) non stanno aspettando Godot, ma il “grande miracolo italiano” profetizzato oramai 30 anni prima da un celebre politico di casa nostra.Ecco allora, impegnate in uno strano confronto indiretto, tre generazioni, tre gradini sociali (tre ballate di Tom Waits) e un sabato italiano in cui, contrariamente all’omonima canzone di Sergio Caputo, il peggio pare essere ancora di là da venire. E il peggio, è risaputo, toccherà a chi ci sarà, a quei giovani che secondo i boomers più sapienti “tendono a farla più grossa del dovuto. Non sapendo che sono i problemi a farli crescere”. Facile dirlo, facilissimo, quando sei in pensione e nulla hai più da chiedere né da dare a questa vita.


Vabbè. Ho aperto questa recensione insolitamente “musicale” con Tom Waits, passando per Caputo, la chiudo con gli Ultravox, lanciando indizi del catartico e sorprendente finale di questo romanzo con le note di una tastiera elettronica e i primi versi di “All fall down”. “Una notte, da ragazzo, ho fatto un sogno. Ogni guerra era giusta perché era solo per il bene contro il male. Poi mi sono svegliato e ho capito che il mondo era impazzito e molto presto tutti saremmo caduti giù”. Era un sabato, di sicuro.